giovedì 29 ottobre 2015

Il pozzo e il manicomio


Ed ecco, un po' in anticipo, il mio racconto di Halloween. Non è uno dei miei migliori racconti horror, ma spero vi piacerà comunque. Il tema? La follia nascosta di chi, giudicando gli altri, crede di essere migliore... Se vi piace, non esitate a commentare ;-) 
Buon brivido a tutti :)





Il manicomio di San Vincenzo era un luogo triste e desolato, dove la gente strillava e veniva punita per questo. I muri erano bianchi per metà, è l’altra metà era di una deprimente tonalità verde marcio (molti pazienti, di fronte a quel verde, davano in escandescenze, mettendosi a gridare che quel colore era ciò che vedevano quando, al calar della notte, chiudevano gli occhi e scendevano in profondità in loro stessi); le scale che collegavano un piano all’altro erano nere, ossute; parevano lo scheletro di un serpente ficcato in verticale per tutta l’altezza dell’edificio e i gradini, quegli stretti e viscidi e rugginosi gradini, erano le vertebre di quel gigantesco e abominevole rettile. Lunghe corsie da ospedale si dipanavano, a mo’ di ali di corvo, dalla stanza centrale, una hall dove un grande bancone circolare fungeva da ufficio amministrativo e, dopo i pasti, da efficiente distributore di pastiglie. Doxepina, lorazepam, aloperidolo, il tutto seguito da un sorso di acqua tiepida al gusto di cloro: ecco il cocktail che i pazienti ingollavano da un piccolo bicchierino di plastica, prima di andarsene buoni buoni nel mondo dei sogni (almeno, questo era quello che si auguravano le infermiere e i guardiani). Sebbene da fuori, coi suoi giardini e le fontane e i viali alberati, sembrasse un luogo perfetto dove vivere, il San Vincenzo era tutt’altro: era un luogo di reclusione dove le buone famiglie scaricavano le pecore nere, gli svalvolati, gli schizoidi, quelli che avevano un tarlo nella testa e il cervello a buchi: c’era la vedova Pedrini, che era diventata vedova dopo aver spappolato la faccia del marito con un batticarne; c’era il ragionier Carli, che aveva scavato una conca nel cranio della moglie con un cucchiaio per dolci. Lei, sfortunatamente, era ancora un po’ troppo viva mentre subiva quell’amorevole trattamento; c’era il vecchio professor Aleneri, stimato medico di Torino, specializzatosi a Bonn in terapia comportamentale. Aveva esercitato fino a tre anni prima, ma poi si era scoperto che mangiava gli organi dei pazienti deceduti, dopo averne trafugato i corpi con il favore delle tenebre. Stupratori, assassini, maniaci, ossessi, pedofili… “Diamine – amava dire Sandra, infermiera al San Vincenzo da più di dieci anni – qui non ci facciamo mancare mai nulla”.
Se ora vi capitasse di passare vicino al San Vincenzo, nel pieno della campagna torinese, notereste che non è altro che una fatiscente struttura, coi muri crollati e il muschio che cresce indisturbato fra le crepe dei mattoni e fra gli interstizi delle tegole. Ma all’epoca della nostra storia il manicomio era un organismo davvero efficiente e lavorava al massimo della sua capienza. Non era, però, la sua epoca d’oro. No. Era, più che altro, il suo canto del cigno. Nel giro di pochi mesi, dopo la morte del nuovo direttore, la struttura sarebbe stata chiusa e allora, allora soltanto i corvi avrebbero camminato su e giù per le corsie deserte, come pensierosi e avidi dottorini in camice nero.

Fu in una giornata di ottobre, sotto una pioggia sferzante e acida, che il nuovo direttore bussò al portone del San Vincenzo. Era un giovanotto di buona famiglia (anche lui si era liberato di una sorella mentecatta, una decina di anni prima), alto e slanciato, con una barba dorata che gli cresceva ai lati del volto; lui credeva che gli conferisse un’aria da gran professore, ma in realtà sottolineava ancor più, e in modo comico, la sua giovane età. Al collo portava un cravattino rosso, e sul petto una spilla cruciforme, con un rubino sanguigno incastonato nel mezzo. Bussò imperiosamente e, una volta che il guardiano ebbe aperto la porta, entrò in modo altrettanto dispotico, mettendosi a squadrare la hall con aria disgustata, come se stesse osservando un letamaio popolato da orridi e unti ratti irsuti. Dopo aver fatto un giro di ispezione e aver visitato tutte le stanze (nel suo viaggio venne accompagnato da due ossequiosi medici che annuivano servilmente a ogni sua osservazione), l’uomo si rintanò nell’alloggio più lussuoso e vasto dell’ospedale: la stanza della torre principale, posta sotto l’orologio, dal cui balcone si vedeva tutta la campagna e i boschi e il fiume e i poveri mentecatti che si trascinavano per il giardino come scimmioni senza cervello.

Si capì subito di che pasta era fatto. Crudele e tirannico, Geremia Volsci si divertiva a presenziare alle lobotomie e alle sedute di elettroshock. Molti (soprattutto gli infermieri) si chiedevano fino a che punto fosse diverso dai maniaci in camicia di forza che bestemmiavano nelle loro gabbie, ma la sua candidatura era stata decisa dai piani alti, e così bisognava buttar giù il boccone amaro e non farsi tante domande. Era un ometto a modo, certamente, ma non si capiva fino a che punto fingesse di esserlo. C’era qualcosa che non andava in quei suoi occhi grigi, acquosi e stranamente profondi.
Una cosa era certa: sapeva fare il suo lavoro. Per due settimane, febbrilmente, analizzò i conti del manicomio, si occupò dei finanziamenti, architettò sistemi parzialmente legali per risparmiare il più possibile: fra questi, ridurre il cibo dei pazienti e lesinare sulla qualità delle verdure e della carne. Scelte vigliacche e discutibili, che vennero però accolte senza alcun lamento: di certo nessuno degli inservienti aveva tempo da perdere né il coraggio di difendere i diritti violati dei loro “ospiti”. La verità era una sola: tutti li odiavano, i pazzi. Odiavano pulire loro la bava, o soccorrerli quando si facevano venire le convulsioni o cambiar loro le mutande quando si pisciavano addosso. Presto anche il riscaldamento alle ale di detenzione dei pazienti fu interrotto e nelle prigioni scese un gelo che penetrava fino al cuore, costringendo gli infermieri ad andarsene in giro per la struttura con cappelli di lana e manicotti di coniglio.

Dopo due settimane, il direttore decise che era arrivato il momento di conoscere più approfonditamente i suoi pazienti. Si fece guidare nel suo tour dal dottor Burgo, uno dei veterani della struttura, vent’anni dedicati alle psicopatologie, cento lobotomie realizzate alla perfezione. I colleghi lo avevano battezzato, affettuosamente, “Dottor Scalpello”.
Burgo guidò il direttore per i reparti e gli fece visitare singolarmente le celle. I pazienti, ammaestrati come cani da appartamento, lo salutarono con gli occhi bassi e borbottando uno stirato e poco sentito “benvenuto, direttore”. Alcuni di loro indossavano i vestiti buoni con cui era arrivati lì e le donne erano state pettinate e i loro capelli lunghi riuniti in trecce ordinate che odoravano di erica e canfora. Quasi quasi sarebbero sembrate normali se non fosse stato per le loro bocche, costantemente aperte come quelle di stolidi pesci abissali.
Avevano quasi finito il loro giro quando si trovarono a passare davanti a una cella diversa da tutte le altre: immersa nell’oscurità, nell’angolo più remoto del più remoto corridoio, la sua porta era rinforzata con sbarre di ferro, e solo un oblò permetteva a chi era dentro di vedere fuori e viceversa; una sottile feritoia larga quanto il dito di un bambino.
«Chi è rinchiusa qui dentro?» chiese Volsci.
«Oh – ribatté cupo il dottor Burgo – qui sta la nostra paziente più pericolosa, la signorina… mi faccia ricordare il nome… Clara Serretti. Ma noi qui la chiamiamo… la Pallida
Il direttore contrasse la fronte.
«Che cosa ha fatto per meritarsi la cella di sicurezza?»
«Ha ucciso il padre e questo l’ha fatta impazzire. Completamente, intendo. Lo ha decapitato e ne ha gettato il corpo in un pozzo non molto distante da qui. A volte la sentiamo gridare che…» ma Burgo si fermò, come a temere di passare lui, per pazzo.
«Continui…» lo esortò il direttore, sistemandosi l’elegante completo color seppia e con esso la spilla d’argento a forma di croce.
«Beh ecco… la sentiamo gridare che lui è ancora vivo e che la aspetta lì sotto, nell’oscurità di quel pozzo. Non c’è alcuna speranza di guarigione per lei, ancora meno di quanto ci sia per gli altri. La teniamo chiusa qui perché non sarebbe mai in grado di andare d’accordo con gli altri pazienti. Una volta abbiamo provato a farla uscire, glielo assicuro, ma ha staccato a morsi un orecchio ad un infermiere e gli ha cavato un occhio con del fil di ferro. Da allora marcisce lì dentro. Le passiamo il cibo da quella feritoia e i bisogni li fa lì, in un tubo che sbuca dal pavimento. Sono quasi vent’anni anni che non esce e non vede il sole. È per questo che la chiamiamo la Pallida.»
«La voglio vedere, subito.» sibilò Volsci, con un sorrisetto malefico. Crogiolarsi nella sofferenza altrui gli dava un brivido di soddisfazione, lo faceva sentire potente e realizzato. Venire in quell’ospedale pieno di anime lacerate era sempre stato il suo sogno. La sua fame di sofferenza sarebbe stata saziata dalle grida dei malati e dall’odore rancido del disinfettante.
Burgo, vedendo che il direttore era serio e che non aveva intenzione di rimangiarsi l’ordine, si sfilò dalla tasca interna del panciotto una grossa chiave verde scuro, la infilò nella serratura e, con fatica (c’era molta ruggine e ragnatele secche formavano un tappo nella toppa), la girò. La porta si aprì e la luce del corridoio ne illuminò uno spicchio, come un taglio arancione nel buio soffocante del nulla.
«Mi raccomando, direttore. Le stia il più lontano possibile. Le teniamo incatenata al muro, ma deve comunque stare attento. Ah, un’altra cosa. Cerchi di non fissare troppo a lungo la sua bambola.»
«Bambola?»
«Sì. Ne è molto gelosa. Credo che sia un regalo di suo padre ed è l’unica cosa con cui lei parli. Beh, se si esclude il tubo che sbuca dal pavimento…»
«Curioso davvero…» bisbigliò il direttore, trattenendo a stento una risata gioiosa. Per lui, i pazzi, erano uno specchio, una lastra riflettente: se guardava nei loro occhi vedeva se stesso, il suo successo, il suo viso ben rasato e la croce d’argento appuntata al petto. Lui era tutto quello che loro non sarebbero mai potuti essere.
Seduta con la schiena contro il fondo della prigione, la Pallida rimaneva in silenzio, abbracciata alla sua bambola di stracci. La fredda luce delle lampade sospese sul corridoio le illuminava parzialmente il volto cadaverico, e le dita affusolate e lerce dei piedi. Eppure, nonostante quella sporcizia e il freddo che sibilava dal buco nel pavimento, la Pallida resisteva stoicamente, come una statua romana al centro di una piazza popolata di persone ostili e indifferenti. Volsci si era aspettato un relitto umano, una povera mentecatta coperta di croste di sporco, ma non era così. C’era autorità in quella piccola figura rinsecchita, c’era, in qualche modo, moralità. Il direttore ne fu contrariato, anzi: era furioso.
«Saluta il direttore…» mormorò il dottor Burgo, facendosi coraggio e usando un tono di voce il più dolce possibile. Il tutto, ovviamente, senza avvicinarsi di un passo alla figura emaciata che languiva nel fondo buio della cella.
La Pallida non diede segno di aver sentito ma si mise a canticchiare fra sé e sé. Tutto quello che diceva, Geremia Volsci se ne accorse con un lieve brivido lungo la spina dorsale, era in rima.
«Vieni giù bambina adorata/ la mamma è lontana nella neve gelata/ su vieni in giardino ti aspetto dai qua/ non avere paura da’ retta a papà. E la piccola Clara le scale scende/ e il padre fra le sue braccia forti la prende/ ma negli occhi di quell’uomo non c’è amore/ solo possesso, malvagità e dolore.»
«Saluta il direttore, ho detto.» ripeté Burgo, con un pizzico di autorità in più nella sua voce arrochita dal fumo della pipa. Ma Clara, sotto gli occhi furibondi del direttore, continuò imperterrita a canticchiare quella sua lugubre filastrocca:
«La bambina di anni ne ha solo nove/ ma far quello che dice suo padre non vuole/ nell’erba trova un rastrello e una lama da giardino/ uccide l’uomo e lo getta nel pozzo lì vicino
«Lasci fare a me!» sibilò il direttore, infastidito dal fatto che la pazza non gli rivolgesse alcuna attenzione. Lui, che era il più giovane e ambizioso direttore che il San Vincenzo avesse mai visto, ignorato come un infermiere qualsiasi! Incapace di trattenere la sua rabbia infantile, che nasceva dall’egoismo che gli scorreva nella vene, Geremia si avvicinò di un passo e diede un calcio alla bambola di stracci che finì, decapitata, contro il muro della cella. In quell’istante, con una rapidità impossibile per una donna rimasta chiusa in una stanza per vent’anni, Clara balzò in avanti. Le catene si allungarono, tintinnando inviperite, ma non riuscirono a trattenerla. E d’altronde il direttore era stato incauto e si era avvicinato troppo. Le dita ossute della donna si avvinghiarono al suo collo imberbe e lo trascinarono con sé sul pavimento. Burgo, scioccato dalla sorpresa, rimase completamente immobile e si appiattì, terrorizzato, contro la porta arrugginita della cella.
«Faccia qualcosa! La prego!» urlò disperato Geremia, scalciando invano nel tentativo di liberarsi da quella folle morsa. Ma la Pallida, che aveva nelle braccia la forza della follia, gli schiacciò il viso contro il tubo fognario che sbucava dal pavimento. Una zaffata di lerciume arrivò nel naso dell’uomo, facendogli lacrimare gli occhi e torcendogli lo stomaco in un conato dirompente. Con la coda dell’occhio vide il viso di Clara gravitare su di lui come una zucca infuocata di Halloween.
«Non lo senti anche tu – cantava e allo stesso tempo gridava la donna – la voce imperiosa che dal sottosuolo mi chiama? Non è morto quel mostro di mio padre e il male che ha fatto per sempre lo consumerà, nelle viscere della terra, a due passi dall’inferno. E adesso che sai il mio segreto, lo specchio si è rotto e tu sei a rovescio!»
«Presto! Presto!»
Burgo si era riavuto dalla sorpresa ed era riuscito a chiamare le guardie. Due omoni dall’aria feroce irruppero nella cella angusta, afferrarono la povera mentecatta per le braccia e la staccarono, urlante, dal corpo tremante del direttore. Il dottor Burgo aiutò l’uomo a risollevarsi e gli tamponò la fronte insanguinata e lorda di sporcizia con il fazzoletto di seta che portava nel taschino.
«Direttore, come si sente?»
Geremia, rialzatosi a fatica, lo fissò con gli occhi più stralunati che il “dottor Scalpello” avesse mai visto. Era completamente sotto shock.
«Mi dica che l’ha sentito anche lei!» farfugliava.
«Che cosa, direttore?»
«Quella voce… Oddio, no! Quella voce maschile che saliva dal tubo… che veniva… dalle viscere della terra!»
Burgo lo squadrò da capo a piedi, rendendosi conto gradualmente che quello era lo sguardo che riservava tutti i giorni ai suoi pazienti.
«Di che cosa sta parlando?»
«Oh, si levi di mezzo!»
Dopo aver spinto via il dottore con un ringhio di puro odio, Geremia fuggì lungo il corridoio, lasciando dietro di sé l’odore della paura e proiettando la sua ombra rachitica sui muri color verde marcio dell’ala di detenzione. Arrivato nella hall principale, indossò il cappotto, il borsalino e infilò la porta, nonostante fuori infuriasse un temporale.
Quella, fu l’ultima volta in cui lo staff dell’ospedale psichiatrico lo vide vivo.

Il due ottobre fu un giorno limpido e senza nebbia. L’infermiera Sandra sfilava lentamente per il viale alberato, seguita a vista da quattro custodi armati di manganello, che sbucavano dalle siepi come titani senza gambe partoriti dal caos primordiale. Sandra camminava lenta, che tanto nessuno le metteva fretta. La paziente che stava portando con sé camminava accanto a lei con la testa bassa, mentre un filo di bava luccicante le stillava dal labbro screpolato. Assomigliava, pensò l’infermiera con disgusto, ad una lumaca dalle fattezze umane, che si trascinava senza scopo su una foglia marcita di verza.
Avevano quasi raggiunto il portone austero del San Vincenzo quando, dall’alto, si udì un frastuono, come di vetri rotti, seguito da un orrendo scricchiolio, simile al rumore di un osso spezzato fra le fauci di un feroce mastino rabbioso.
Sandra guardò in su e si mise a gridare come una pazza: il corpo del direttore, appeso per il collo ad una vecchia corda, penzolava dalla lancetta delle ore dell’orologio della torre. Dondolava su e giù, seguendo il soffio del vento gelato, come una marionetta attaccata al muro per mezzo di un chiodo arrugginito. Tutti lo videro, pazzi compresi, e si accalcarono ai piedi della torre, sotto la finestra dove lui, un tempo, aveva sogghignato, ammirando il via vai dei mentecatti di cui era il diabolico dittatore. I matti iniziarono a ridere a urlare a saltare come pazzi (e lo erano). Qualcuno, indicando il corpo martoriato di Geremia Volsci si mise a gridare:
«È lui, è il nostro Re!»
Molti si unirono a quel coro, e presto il giardino, di solito mortalmente silenzioso, si riempì di grida di giubilo, di canti e di schiamazzi.
Nel frattempo, il corpo del direttore sfavillava sotto il sole invernale come fosse uno scintillante pezzo di specchio.

Mentre lo staff dell’ospedale cercava di entrare nella stanza chiusa del direttore, scoppiò una rivolta, che si concluse con due guardiani feriti e tre pazienti morti. Fu il caso di cronaca più discusso di quegli anni e il motivo principale per cui il San Vincenzo, in meno di due mesi, venne chiuso dalle autorità. Come sempre accade, c’erano voluti dei morti perché il mondo si rendesse conto delle condizioni terribili e del regime violento a cui i pazienti dovevano sottostare.
Quando il dottor Burgo riuscì a sfondare la porta, la guerriglia nel giardino aveva raggiunto il momento più tragico e le urla salivano fino alla finestra insieme al fumo acre di un piccolo incendio. Il cadavere di Volsci, ritto in mezzo a quel caos, sembrava la figura maestosa di un dittatore intento a galvanizzare le truppe prima di una spedizione senza senso nel gelo russo.
Mentre gli inservienti tiravano giù il corpo, Burgo si avvicinò alla scrivania, dove trovò un vecchio foglio ingiallito coperto di parole fitte fitte.
Le ultime righe del direttore, scritte con una stilografica dal pennino divelto, recavano testuali parole:
                                         

Clara non era pazza, oh no! Sono stato al pozzo, sì, sì… ho sentito il sibilo della voce di quel mostro. Il padre di Clara non è morto, no… Sussurra, sussurra costantemente la sua ira. Nelle profondità di quel tunnel attende la fine del mondo. Clara mi ha confidato il suo segreto e la sua maledizione, mi ha costretto ad aprire gli occhi e Lui ora sa… sa che conosco il suo segreto, sa che io so che è vivo, vivo in quel buco di perdizione. E mi chiama, mi chiama! Nella mia testa, lo sento… Non posso resistergli. Devo andare, devo raggiungerlo, devo scendere in quel lercio sfintere. Oh, e se sarò buono con lui, sì, se gli sarò fedele e non lo farò aspettare, allora mi dirà il segreto della sua immortalità. Dal momento in cui ho sentito chiamare il mio nome so bene quello che devo fare. A mezzogiorno, quando il sole splenderà sulla facciata principale del San Vincenzo, mi impiccherò alle lancette del Grande Orologio… Oh che gioia, oh che immenso terrore… dalla finestra della Torre… Lo Vedo! Vedo il pozzo, lo vedo distintamente e sarà l’ultima cosa che vedrò, prima che l’ultimo fiato mi venga strappato via da questa corda…

domenica 25 ottobre 2015

Videogiochi consigliati - Ori and the blind forest



Quando trovo un buon videogioco per me è come aver trovato un buon libro. Molti storceranno il naso davanti a questa affermazione ma per me è davvero così: un buon film, un buon libro e un buon videogioco suscitano, in fondo, le stesse emozioni; rabbia, stupore, felicità, commozione… Ovviamente ogni forma d’arte presenta le proprie difficoltà: nel caso del videogame consistono nel dosare in modo equilibrato il gameplay, la narrazione e la grafica. Non è un’impresa facile e infatti troppo spesso vengono sviluppate delle schifezze senza ritegno. Ogni tanto, però, qualcuno ci riesce particolarmente bene, e questo è il caso del videogioco che vi vado a presentare oggi ;)
Sviluppato da Moon Studios sotto l’egida di Microsoft Games, Ori and the blind forest è un meraviglioso single player platform che si caratterizza per una direzione artistica da urlo e per una narrazione semplice, ma allo stesso tempo coinvolgente e delicata. Ma procediamo per gradi.

La narrazione è senz’ombra di dubbio uno dei punti forti del titolo. La storia è semplice, archetipica, tutta giocata sulla contrapposizione “mitica” fra luce e tenebra: il videogioco inizia con una terribile tempesta, che travolge l’Albero dello Spirito, il guardiano che protegge ed equilibra tutta la foresta. Il vento è così forte che una fogliolina, in realtà uno spirito di luce che si chiama Ori, viene trascinato via e portato molto lontano, in un angolo remoto della foresta. Qui viene trovato da una buffa e pingue creatura, che lo adotta. Fra i due si forma un legame simile a quello tra madre e figlio, e Ori cresce senza ricordare le sue origini. Ma un brutto giorno l’Albero dello Spirito viene attaccato da Kuro, un terribile uccello predatore nero come la notte, che ruba la sua luce e la spegne per sempre. La foresta cade nel caos, la madre adottiva dello spiritello muore, e Ori sarà costretto a compiere un viaggio pericoloso, nel tentativo di ridare vita all’Albero dello Spirito. E qui mi fermo perché altrimenti vi rovinerei l’esperienza. Vi basti sapere che la storia vi stupirà e, in alcuni punti, saprà commuovervi. D’altronde, le storie semplici sono le migliori, perché giocano su valori che tutti noi consideriamo importanti e che ci appartengono.


Se la storia vi ha convinto, aspettate di vedere il resto! La direzione artistica, infatti, non è da meno, anzi: per molti versi l’aspetto visivo di questo gioco supera addirittura la narrazione e il gameplay stesso. Siete amanti dei mondi magici, misteriosi ma anche oscuri del genio dell’animazione Hayao Miyazaki? Ecco, allora Ori and the blind forest fa proprio per voi! Non c’è un singolo angolo della foresta che non sia stato realizzato nei minimi dettagli: fiori, foglie, arbusti, liane, laghetti, pozzanghere… A volte sei costretto a fermarti e a osservare il paesaggio per lunghi minuti, anche a costo di finire ucciso da qualche odioso mostriciattolo-ranocchio. Pazienza, perché ne varrà la pena.


Ultimo, ma non ultimo il gameplay, che si rivela essere davvero stimolante e appassionante. Essendo un platform bidimensionale, lo scopo del gioco è quello di esplorare balzo dopo balzo lo foresta e trovare diversi spiriti elementali grazie ai quali rinnovare la luce spenta dell’Albero dello Spirito. Per far ciò dovrete sfidare i pericoli che si celano fra gli alberi, saltare, planare, tuffarvi sott’acqua, evitare getti di fiamme che escono da tutte le parti. È un gioco difficile, fidatevi di me, ma anche incredibilmente divertente. Man mano che si procede con l’avventura, Ori imparerà nuove mosse e nuove abilità, con le quali gli sarà possibile scoprire segreti che prima non erano alla sua portata, perché magari troppo lontani per essere raggiunti con un misero salto. Vi troverete, quindi, a dover tornare più volte negli stessi luoghi, ma non sarà affatto noioso, anzi: avrete l’occasione di conoscere la foresta come le vostre tasche e vi sembrerà quasi di viverci davvero.

A far da contorno a tutto questo ben di Dio, una meravigliosa colonna sonora, che si integra perfettamente con gli avvenimenti che avvengono su schermo e che amplifica di mille volte le emozioni suscitate dall’ottima narrazione.

Che altro dire? Io ve lo consiglio assolutamente. Se avete l’Xbox One o il PC, fateci un pensierino e vedrete che, una volta finito, vi sembrerà di aver divorato un meraviglioso romanzo fantasy di altri tempi. Se vi interessa, questo è il sito ufficiale e, se per caso lo aveste già giocato, non esitate a commentare e a dirmi come la pensate! ;)


P.S. qualcuno di voi ama un gioco in particolare, un gioco che lo ha appassionato come un buon libro? E se sì, quale? J Grazie per avermi seguito e a presto :)

sabato 17 ottobre 2015

Libri consigliati - Cose preziose di Stephen King



Salve a tutti! Speravate che fosse un nuovo racconto, eh? E invece è un’altra recensione. Ma non disperate: sto preparando un racconto horror, uno dei miei, uno “a la Lovecraft[1]”, che pubblicherò in occasione dell’imminente festa di Halloween. Nel frattempo, sempre per rimanere in tema, volevo recensire un romanzo che mi è piaciuto da morire: Cose Preziose di Stephen King (1991).

Stephen King è uno dei miei autori preferiti e negli anni, quasi senza rendermene conto, ho letto montagne e montagne di suoi romanzi. Molti di voi lo considereranno un autore mainstream, uno di quegli scrittori di bestseller che sfornano romanzi uno uguale all’altro, ma a me, nonostante un evidente calo nella qualità della sua narrativa, continua a piacere. Sarà lo stile, saranno le trovate narrative, sarà la capacità di immergersi a fondo nella psiche turbata e malata dei suoi personaggi… Per me, Stephen King è e resterà sempre un grande. Sul serio.
E Cose preziose è nella top 5 dei suoi romanzi che preferisco, sebbene non sia considerato una delle sue opere migliori.

La trama è una delle classiche trame “corali” di Stephen.
Nella piccola, noiosa cittadina di Castle Rock (una cittadina fittizia del Maine) viene aperto un nuovo e misterioso negozio. I cittadini, abituati alla noiosa routine che caratterizza la loro esistenza di provincia, vengono attirati come mosche all’interno dell’emporio dove fanno la conoscenza con il proprietario: Leland Gaunt. Un uomo affabile e cortese, ma che ha qualcosa che non va: le dita delle mani troppo lunghe, il sorriso strano, gli occhi che cambiano colore… Nessuno sembra farci caso, anche perché Gaunt, nel suo negozio, vende di tutto. O meglio, vende tutto quello di cui le persone hanno bisogno. Per qualcuno è la figurina di un giocatore di baseball che gli mancava per completare l’album, per un altro è una fantomatica scheggia dell’Arca di Noè, per un altro ancora una strana collana in grado di curare l’artrite… Sono oggetti costosi, ovviamente, ma Leland è un uomo molto generoso: si accontenta di pochi spicci e di uno scherzetto ai danni di un altro inconsapevole abitante. Che cosa sarà mai uno scherzetto, no? Eppure, dispetto dopo dispetto, inganno dopo inganno, le malvagità, le invidie, l’odio celato nel cuore “perbene” degli abitanti riaffiorano, e Castle Rock precipita nel caos. Il sangue comincia a scorrere lungo le strade e l’unico a poter fermare tutto ciò è lo sceriffo Alan Pangborn, l’unico degli abitanti a non essere finito nel tranello del diabolico Gaunt.

Per chi già conoscesse Stephen King, questo romanzo sarà un’occasione per tornare nella cittadina di Castle Rock, che è stata lo sfondo di molti altri suoi romanzi di successo (fra gli altri La zona morta, Cujo e La metà oscura) e per seguire le avventure, nel bene e nel male, di molti personaggi già familiari. Per tutti gli altri, Cose preziose sarà comunque un romanzo stuzzicante, ricco di colpi di scena, di suspense e di humour nero.
Annoiarsi è impossibile, fidatevi, e il valore aggiunto di questo romanzo è che riesce a ritrarre alla perfezione le ipocrisie, le falsità e le meschinità che gli uomini nascondono nel loro cuore e che, se si premono i tasti giusti, sono destinate a esplodere. Letteralmente.
In questo, Stephen King si rivela ancora una volta un maestro.

Ecco tutto. Spero che il mio consiglio vi sarà gradito. Se avete già letto questo romanzo, commentate pure qui sotto e dite la vostra! Vi è piaciuto o vi ha deluso? E quali sono i vostri romanzi di Stephen King preferiti? Grazie per avermi seguito e a presto! J



[1] Perdonami, Maestro, per averti nominato in relazione ad uno dei miei schifosissimi racconti horror

martedì 29 settembre 2015

Film consigliati - Nel fantastico mondo di Oz (1985)





Perdonatemi: non ho trovato il tempo di scrivere un nuovo racconto, ma voilà, ecco la recensione di uno dei film che ha segnato la mia infanzia: Nel fantastico mondo di Oz di Walter Murch. Il titolo italiano, come sempre, è stato scritto coi piedi. Molto meglio l’originale inglese: Return to Oz.
Prodotto dalla Walt Disney (non come il primo storico film del mago di Oz, i cui diritti appartengono alla Warner) il film si ispira al secondo e al terzo libro della saga di Oz ideata da L. Frank Baum. Prima di procedere, un avvertimento: dimenticatevi la gaia serenità della Dorothy di Judy Garland, perché qui, nel regno di Oz di Walter Murch, si respira un’aria diversa… e che aria!

La storia continua da dove si era interrotta: Dorothy è tornata nel Kansas, ma, ahimè, non è più la stessa. Non fa altro che parlare di Oz, dello Spaventapasseri, della città di Smeraldo e sua zia, la poco lungimirante Emma, decide di portarla in una clinica psichiatrica per farle passare del tutto questa sua mania. Una clinica dell’epoca, si intende, con tanto di macchine per l’elettroshock, barelle dotate di cinghie e orribili infermiere vestite di nero… Creepy, non è vero?
Proprio mentre sta per essere attaccata alla macchina elettrica, per una bella e “sana” dose di elettroshock, nella clinica salta la luce e Dorothy, liberata da una misteriosa ragazzina in abito bianco, riesce a fuggire. Inseguite dalla caposala, la malvagia infermiera Wilson (è un caso che assomigli a una strega delle fiabe?) le due ragazzine finiscono in un fiume e, sotto un furioso temporale, vengono trascinate via dalla corrente. Ed ecco che, esattamente come accadeva nel primo romanzo, Dorothy si risveglia ad Oz, senza avere la più pallida idea di come esserci arrivata. Oh, ma non è l’Oz che ci aspetteremmo: la Città di Smeraldo è in rovina, ogni abitante è stato tramutato in statua e le pietre preziose, splendore della città, sono state trafugate. Una regina malvagia che colleziona teste di ragazzina (sì avete letto bene) ha preso il posto del Re Spaventapasseri e, in combutta con il malvagio Re degli Gnomi, tiene in scacco l’intero Regno di Oz. Una bella gatta da pelare, per la povera Dorothy Gale.
Figuratevi che goduria, per un bambino di otto anni, guardare un film dove l’antagonista, le perfida strega Mombi, conserva le teste delle sue prede in eleganti vetrinette dorate, come fossero tazzine di porcellana. E poi mi domandavo perché, quando mi addormentavo, avevo sempre gli incubi!

Il film, purtroppo, non ebbe il successo sperato, nonostante sia diventato un cult quasi introvabile (se vi capita di trovare il DVD, compratelo assolutamente: potrebbe essere l’ultimo esemplare esistente) e il motivo salta subito all’occhio. Il film di Murch è l’esatto opposto del capolavoro di Fleming del 1939. È innegabile che il musical zuccheroso e iper-colorato della Warner Bros. sia stato e sia tutt’ora una leggenda, e vedere il mondo fantastico e magico di Oz ridotto ad un deserto in rovina, popolato da creature terribile e minacciose (i Ruotanti, quand’ero bambino, me la facevano fare sotto), è un colpo che gli spettatori dell’epoca non seppero sopportare.
Ovviamente, con il passare degli anni è stata proprio quest’atmosfera quasi Burtoniana a decretare il successo del film. Un miscuglio di fantasy e horror che davvero non delude.
Ciliegina sulla torta, una chiave di lettura che ho capito solo dopo aver rivisto il film da più grande. La macchina dell’elettroshock, che il dottore cerca in tutti i modi di rendere più “umana” e meno spaventosa, è la metafora della tecnologia che rischia di uccidere la creatività. In questo senso, il mondo di Oz così “violento” è una specie di rivalsa dell’immaginazione contro i pericoli della perdita dei valori tradizionali.


Che altro dire? Spero che anche voi abbiate avuto la fortuna di vedere questo piccolo classico dimenticato. Se così fosse, commentate qui sotto e ditemi come la pensate! In caso contrario, spulciate il web e comprate il VHS/DVD… ne varrà la pena! 

domenica 20 settembre 2015

Libri consigliati - Stardust di Neil Gaiman





Salve a tutti! È passato un po’ di tempo dalla mia ultima recensione di un libro, perciò è ora di rimboccarsi le maniche. Perché, diamine, non posso mica annoiarvi solo con i miei racconti, no?

Quest’oggi, voglio parlarvi di Stardust, di Neil Gaiman.
Come chi mi segue già saprà, io amo molto il genere fantasy, ma sono decisamente difficile da accontentare. Dal momento che Il Signore degli Anelli è uno dei miei romanzi preferiti (anche se non concordo nel definirlo un fantasy a tutti gli effetti, ma piuttosto il riuscito tentativo di creare un’opera epica in pieno Novecento, un’operazione, diciamocelo, che ha dello straordinario), qualcuno di voi potrebbe credere che sia un patito delle epopee fantasy in dieci volumi, quelle con elfi, gnomi, draghi, cavalieri senza macchia e perfidi Signori Oscuri, il tutto condito dal barbuto stregone che, nel rispetto devozionale del suo ruolo attanziale, rimane sempre e comunque una guida del protagonista. Sbagliato. Per me il fantasy deve mantenere un contatto con la fiaba, deve avere un retrogusto, come dire, leggendario. Insomma, piuttosto che fingersi un romanzo storico, il mio fantasy ideale deve farmi volare nel passato, nell’epoca dorata e trasognata dell’infanzia. E infatti i miei romanzi fantasy preferiti sono Il Mago di Ursula K. Le Guin e La storia infinita di Michael Ende. Romanzi originalissimi, che, pur rimanendo fedeli al loro genere di appartenenza, riescono ad essere innovativi e a non cadere nei cliché di cui, ahimè, il fantasy di oggi è stracolmo.
Cosa c’entra tutto questo con Stardust? Semplice: Stardust è molto vicino a questi miei modelli “ideali” di fantasy e infatti l’ho amato moltissimo.

La trama, in sé, è piuttosto semplice. Il giovane Tristan Thorn, un annoiato abitante del noioso villaggio di Wall, si trova a dover compiere una quest all’apparenza impossibile: portare alla sua algida amata, Victoria Forester, una stella caduta. Un’impresa impossibile, converrete anche voi, ma non una volta entrati nel magico mondo di Faeria. Wall infatti, pur essendo un villaggio come tutti gli altri, sorge vicino ad un muro (da qui il suo nome), unica barriera a dividere il nostro mondo, un posto prevedibile pieno di regole sociali, matrimoni combinati e ipocrisia, dal luogo della fantasia e della magia, Faeria appunto.
Mosso da questo suo amore impetuoso e, sotto sotto, non così poi significativo, Tristan oltrepasserà il muro. Il suo sarà un viaggio incredibile, che lo porterà a conoscere strani e inquietanti personaggi, assurdamente improbabili eppure magicamente concreti: le sorelle streghe che cercano la perduta giovinezza; un’intera casata di principi omicidi, intenti a uccidersi l’un l’altro per conquistare il trono e il potere della stella; una ciurma di pirati che a bordo di un veliero volante “navigano” le nuvole a caccia di saette... In un mondo così strano e pericoloso, come potrà mai sopravvivere il giovane e inesperto Tristan? Riuscirà a compiere la sua impresa? Sopravvivrà alle macchinazioni dei potenti e all’avidità delle sorelle megere? Scoprirà qualcosa di più su se stesso? E poi, la stella, sarà davvero una stella come ce la immaginiamo noi? Mi dispiace, ma non risponderò a nessuna di queste domande, perché vi rovinerei il finale, e questo proprio non posso permettermelo.

Vi dirò solamente il motivo per cui Stardust è un libro che dovreste leggere.
Primo: la storia. Una storia semplice, vero, ma riuscita e avvolgente, capace di farvi viaggiare con la fantasia, proprio come se vi trovaste in uno di quei bei sogni che da adulto non si è più capaci di sognare. Dimostrazione che, per scrivere un bel fantasy, non è necessario raccontare di battaglie fra uomini e nani e draghi e elfi e orchi e troll (e goblin).
Secondo: l’atmosfera. Sempre a cavallo tra realtà e immaginazione, il paesaggio di Faeria è una terra del sogno dove è bello perdersi, dove ogni piccolo dettaglio è profumato, colorato, intessuto della magia dell’irreale.
Terzo: lo stile. Neil Gaiman è uno dei pochi autori moderni che sa ancora come raccontare una storia senza scadere nel banale o nel già sentito. Sfogliare le pagine è come ritrovarsi in un mercato fatato, dove ogni parola è un dono o un oggetto che potrà rendere la vostra vita più preziosa.

Questo è tutto. Spero di non avervi annoiato e che il mio consiglio vi risulti gradito. Se avete già letto il romanzo, commentate pure qui sotto e ditemi se vi è piaciuto. Alla prossima!! 

lunedì 7 settembre 2015

La bambola

Ecco a voi un racconto un po' particolare. Una specie di parodia-horror che si focalizza su una semplice riflessione. Chi sono i veri mostri? Vampiri, spettri, bambole assassine o chi ruba, chi mente, chi inganna, chi promette e poi non mantiene?
Spero vi piaccia e vi faccia sorridere :)





«Dov’è, dov’è che l’ho messa?»
Carlo si allungò verso il sedile del passeggero e rovistò con la mano destra ovunque, nel vano del cruscotto, fra i documenti a lato della portiera, sotto la leva del cambio; infilò le mani nella sporcizia dimenticata sotto i tappetini, dove incontrò solo rimasugli di tortillas di mais, un cetriolino sottaceto ammuffito e grumi di cereali caduti da una di quelle disgustose barrette ipocaloriche di Paola; verificò persino che sull’imbottitura del sedile non ci fosse uno squarcio in cui quella cosa si sarebbe potuta casualmente infilare.
«Niente – imprecò – è sparita.»
La sua auto, una vecchia Ford Pinto, sfrecciava nella notte romana con un sibilo sordo; le eleganti case di Via Nomentana si riflettevano sui finestrini opachi della vettura con un ritmo quasi ipnotico.
La faccia di Carlo era una maschera di terrore.
“Dov’è? Eppure ero certo di averla messa qui!” pensò, mentre un brivido freddo gli scivolava giù lungo la spina dorsale. Che Paola avesse ragione? Che fosse davvero posseduta, quella… bambola?
Era stato lui a regalargliela, per farle una sorpresa. Paola si era laureata da nemmeno otto mesi in storia dell’arte, ma il suo entusiasmo si era spento a una velocità sorprendente non appena si era accorta che trovare lavoro come professoressa, negli anni della crisi, era una vera impresa. In quei lunghi mesi le avevano proposto solamente un misero impiego come insegnante di sostegno a Bari, ma Paola non aveva alcuna intenzione di lasciare la città che tanto amava né tantomeno lui, Carlo Serretti. Non sarebbero mai resistiti, loro due, senza vedersi tutte le mattine, senza svegliarsi l’uno fra le braccia dell’altra, senza comunicarsi paure, sogni, intenzioni... Convivevano da due anni e, se le cose fossero proseguite così bene, si sarebbero presto sposati. Una cerimonia semplice, niente di sfarzoso: parenti selezionati, buffet a prezzo contenuto, crostata di frutta fresca al posto di quelle pretenziose torte alla crema condominiali…
Pertanto, se volevano coronare il loro sogno, baciarsi davanti all’altare e mettere su famiglia, qualcuno doveva sacrificarsi. Non era giusto, certo che no, ma era così che andava.
«La nostra storia è più importante di qualsiasi altra cosa.» aveva detto Paola, e così, seppur a malincuore, la donna aveva rifiutato l’impiego. E Carlo, per cercare di tirarla un po’ su, aveva pensato di comprarle qualcosa di particolare, qualcosa che avrebbe lasciato il segno, facendole dimenticare, anche se per poco, l’amarezza di vivere in un paese che non offriva prospettive.
Ma cosa regalarle? Carlo non ne aveva idea. Non era un asso nelle sorprese; in questo non si distingueva dall’85% della popolazione maschile. Ma voleva fare le cose in grande e stupirla, almeno per una volta. Paola se lo meritava.
Così si era preso un giorno libero in ufficio (lavorava come impiegato in una ditta di imballaggi) e, senza dire niente alla sua futura dolce metà, era uscito all’ora consueta (alle sette spaccate), fingendo che fosse un giorno come tutti gli altri. Aveva indossato la sua camicia migliore, aveva preso la sua ventiquattr’ore, aveva baciato Paola sulla fronte ed era uscito di casa.
Un gioco da ragazzi. La vera sfida, però, iniziava adesso. Cosa regalarle? Era una domanda che l’aveva perseguitato per settimane intere. Si era scervellato, ci aveva pensato, ma non aveva ottenuto una risposta. E così si era messo a vagare per la città, senza meta. Aveva visitato le più sfarzose gioiellerie, toccando con mano l’enorme divario fra idealizzazione e realtà. Comprarle un anello o un paio di orecchini era al di sopra delle sue possibilità, inutile girarci attorno. Cogitabondo, si era avvicinato allora alle vetrine della nota pasticceria Rossellini, una delle attività storiche e più apprezzate della città; file e file di paste alla crema lo guardavano blandamente da dietro un vetro incredibilmente luccicante, quasi diamantino. Un dolce era un classico, come i fiori, ma sarebbe durato lo spazio di un minuto, giusto il tempo di assaporarlo e deglutirlo. Carlo aveva scosso la testa, voltando le spalle alla pasticceria. Voleva qualcosa che restasse, qualcosa che Paola avrebbe potuto mostrare alle amiche con orgoglio.
Si era quasi arreso, dirigendosi sconsolato verso casa, quando aveva incontrato quel buffo mercatino itinerante: una specie di risciò traballante, stipato di oggetti inverosimili. Lo trainava un vecchio signore tutto curvo, coi capelli bianchi e un occhio di vetro. Faceva una certa impressione, ma Carlo non ci aveva fatto poi tanto caso: una morbosa curiosità aveva sostituito ogni altro suo istinto. Si era avvicinato, e il vecchio, con la parlantina sciolta tipica del venditore esperto, gli aveva mostrato la pittoresca sarabanda di oggetti che trasportava nel risciò: libri antichi con rilegatura bodoniana, servizi di porcellana sbeccati, croste di artisti anonimi che ritraevano spiagge oscure e desolate… Carlo faceva di sì con la testa, ma non ascoltava neppure, perché qualcosa aveva completamente catalizzato la sua attenzione: una bambola, una bambola di porcellana, seduta su quella pila di ciarpame come una regina. In qualche modo, Carlo aveva la sensazione di averla già vista. Ma dove?
«Mi scusi – aveva detto, interrompendo la logorrea del vecchio venditore – mi saprebbe dire di più su quella strana bambola?»
Il venditore aveva sobbalzato, mentre un sorriso liberatorio e un po’ sinistro si era fatto spazio sul suo viso incartapecorito e gialliccio.
«Quella bambola? Oh, che Dio sia lod… volevo dire: certo che le so dire di più! Non è molto che ce l’ho: me l’ha venduta un tizio qualche settimana fa. Mi creda, è con molta “ah-ehm” sofferenza che me ne libero. Vede i meravigliosi dettagli della porcellana? Gli incredibili vestiti realizzati a mano in organza e merletti? Oh, non è una bambola qualunque: è una creazione di Lorenzo Ghiriviani.»
Carlo batté le mani, galvanizzato. Non poteva credere alle sue orecchie!
«Ghiriviani, ha detto? Il grande pittore e scultore? La mia ragazza, Paola, mi ha fatto uno testa così a furia di parlarmene!»
Era vero: Paola, fra gli artisti minori che aveva avuto modo di studiare all’università, aveva eletto come suo beniamino proprio Ghiriviani. Era un artista napoletano, dei primi del ‘700, un tipo curioso, ammantato di mistero, la cui breve biografia si confondeva con le leggende e le superstizioni locali. Si diceva che fosse dedito alla magia nera e che ne avesse imparato i rudimenti durante un viaggio in Tessaglia. Morto in circostanze misteriose, era sparito con la stessa facilità con cui era comparso, lasciando la sua impronta unica sulla città di Napoli: quadri, bozzetti, sculture, giocattoli, tutte le sue creazioni avevano un che di sinistro, e quella vecchia bambola non faceva eccezione: il viso austero, lo sguardo enigmatico, il sorriso ambiguo. Paola ci sarebbe andata pazza!
Carlo non ci aveva pensato due volte:
«Quanto le devo?» aveva detto, mettendo mano al portafogli.
Il vecchietto, incredulo ed eccitato, gli aveva schiaffato la bambola in pieno viso gridando: “gliela regalo”. Dopodiché, in bilico sulle sue gambette scheletriche, era sparito in mezzo alla folla di Piazza Navona con il risciò e tutto il resto.
Nella sua Ford Pinto, mentre cercava disperatamente di trovare quella bambola, Carlo si maledisse per non essersi accorto del raggiro. Com’era potuto essere così cieco? Il venditore aveva voluto liberarsi di quella bambola per un motivo ben preciso: perché era una vera e propria iettatura.
Ma lui, in quel soleggiato giorno di marzo, questo non lo poteva ancora sapere. Felice per l’inatteso colpo di fortuna, l’aveva portata subito a Paola, e lei, com’era facile immaginare, era letteralmente esplosa dalla gioia.
«Tiamotiamotiamo!» aveva gridato, lanciandosi verso Carlo e abbracciandolo fino a mozzargli il respiro. Subito dopo, con un gridolino infantile, aveva afferrato la bambola, l’aveva baciata affettuosamente e l’aveva sistemata sulla mensola del camino, accanto all’urna d’acciaio satinato che conteneva i poveri resti di sua madre. Entusiasta di condividere quell’esperienza (non tutti potevano vantarsi di avere un capolavoro di Ghiriviani in casa) aveva invitato amici, parenti, colleghi disoccupati, e pubblicato tonnellate di selfie su Facebook. E fin qui tutto bene.
Ma ecco che erano iniziati i disastri: prima il crollo del soffitto in cucina, poi le ceneri di Rebecca, la madre di Paola, che erano andate a finire non si sa come nel serbatoio della scopa elettrica; infine la super-bolletta da parte dell’Enel che aveva distrutto le loro già fragili finanze, obbligando Carlo a tre ore in più di straordinari al giorno. Una climax inarrestabile di sciagure che non aveva alcuna intenzione di smettere. La coppia non ci aveva messo molto a farsi un’idea di chi fosse il responsabile di tutto ciò, per quanto strano potesse sembrare.
Una sera, dopo che la loro televisione era defunta con un crepitio azzurrino (la garanzia era scaduta nemmeno 11 ore prima), Carlo e Paola si erano guardati e poi, all’unisono, avevano girato la testa verso la bambola; Lady Lavanda, questo il nome ricamato sul vestitino lillà, li squadrava minacciosa da sopra il caminetto. Era solo la loro immaginazione, o era vero che il suo delicato sorriso era stato sostituito da una smorfia di puro odio?
In breve, Paola aveva iniziato a temere quella bambola. Se prima l’aveva amata con tutta se stessa, ora la detestava con la stessa intensità. Dal caminetto l’aveva spostata dietro al divano, da dietro al divano allo sgabuzzino, dallo sgabuzzino alla cantina. Ma non si sentiva affatto al sicuro, oh no. Era quasi certa di aver sentito, nel cuore della notte, il rumore di piccoli passi che venivano su dalla scala del seminterrato; passi che risuonavano secchi, come se chi si muoveva avesse i piedi di legno. O di porcellana.
«Tranquilla – le diceva Carlo, cercando di rincuorarla – è solo un momento giù. Di sfortune ne capitano in continuazione alle persone come noi. Non c’è nessun evento paranormale, fidati di me.»
Quando lo avevano chiamato al lavoro perché Paola era finita all’ospedale, Carlo si era reso conto che non poteva più negare l’evidenza: avrebbe dovuto liberarsi di Lady Lavanda. Una volta per sempre.
Paola era scivolata giù per la scala del seminterrato perché la bambola, così diceva lei, le aveva fatto lo sgambetto. Se l’era cavata con tutte e due le gambe rotte e con una commozione cerebrale. Un male cane, ma era stata fortunata, dicevano i medici: avrebbe potuto rompersi l’osso del collo o restare su una sedia a rotelle a vita.
«Si è mossa! Io l’ho vista – aveva piagnucolato Paola, quando Carlo si era presentato nella sua camera d’ospedale con un mazzo di tulipani defunti in mano – Quella bambola è viva! Liberati di lei, ti prego.»
Carlo, anche se incredulo, aveva promesso. E per lui ogni promessa era un debito.
Per quello era lì, a ravanare sotto i sedili, per cercare quella dannata…
Un guizzo bianco nello specchietto retrovisore lo fece voltare. Con un singulto di puro terrore, Carlo frenò di botto, rischiando di perdere il controllo della vettura e di schiantarsi contro un palazzo. Lady Lavanda era seduta dietro, sul sedile di mezzo, ben protetta dalla cintura di sicurezza. La smorfia sul suo viso era ancora più malvagia di quando l’aveva caricata in auto.
«Che mi venga…» borbottò Carlo. Non ce l’aveva messa lui, lì! Assolutamente no! O forse sì?
“Che stia impazzendo?” si chiese l’uomo, prendendosi a ceffoni per assicurarsi di non essere invischiato in uno di quegli incubi post-abbuffata. Macché. Era tutto reale, tutto dannatamente reale. Rivolgendo gli occhi al cielo in una preghiera silenziosa, Carlo riavviò il motore e ripartì nella notte.
Emise un sospiro liberatorio quando raggiunse la sua meta: il Tevere scorreva lento sotto ponte Milvio, nero come lava solidificata. Carlo, assicurandosi che nessuno potesse vederlo, uscì dall’auto, prese la bambola (con un certo disgusto) e strisciò fino al parapetto. Guardò un’ultima volta la faccia di porcellana di quel piccolo demonietto.
«Fanculo, Ghiriviani…» imprecò. E la lanciò nell’acqua sottostante. La bambola, con un suono liquido, sparì nella corrente. E Carlo, dopo essersi assicurato che non tornasse a galla, montò sulla sua preistorica Ford e se ne ritornò soddisfatto a casa.

L’appartamento era immerso nel silenzio più austero. Cercando di non pensare agli eventi di quell’infausto giorno, Carlo si tolse le scarpe ed entrò. Sarebbe stata dura passare la notte senza la sua Paola: i medici aveva considerato opportuno tenerla ancora in osservazione, visto le forti nausee che non accennavano a passare. Niente di preoccupante, avevano sentenziato: capitava non di rado dopo una commozione cerebrale.
Carlo appese il giubbino ad una gruccia e fece un salto in cucina; si aprì una lattina di birra, che trangugiò tutta d’un sorso. Fresca e corroborante. Ne aveva davvero bisogno. Poi tornò in salotto e si avvicinò alla televisione. Pescò il telecomando da dietro i cuscini del divano e pigiò il pulsante di accensione. Non accadde nulla.
“Non può essersi già rotta – considerò – l’abbiamo appena ricomprata!”
Si avvicinò allo schermo e vide che la spina non era attaccata alla presa della corrente, ma se ne stava lì, abbandonata sul pavimento come un lombrico rinsecchito.
«Davvero un bello scherzo, Paola. Proprio divertente» borbottò l’uomo. Si inginocchiò, afferrò la spina e la infilò dove doveva stare. Proprio in quell’attimo accadde l’imprevisto.
Un guizzo, un movimento rapidissimo dietro di lui. Carlo sentì un dolore lacerante alla gamba e crollò in avanti. Qualcuno lo aveva infilzato al polpaccio con un coltello. Anzi: non qualcuno. Qualcosa.
Lady Lavanda era in piedi, a pochi passi da lui; un grosso coltello da cucina nella mano sinistra e il solito sorriso sadico dipinto sul visino di porcellana. Carlo gridò come un pupo, lasciandosi scivolare sul pavimento; i suoi pantaloni erano zuppi di sangue e di urina. Si era pisciato addosso.
«Salve, Carlo.» lo schernì la bambola.
«Tu! Non p-puoi essere qui! – balbettò l’uomo – Io t-ti ho gettata via. Ti ho visto colare a p-picco come un sasso!»
Lei rise.
«Credevi di esserti liberato di me? Stupido! Nessuno può rompere la maledizione di Ghiriviani! E ora morirai per averci provato!»
La bambola si avvicinò, saltellando sulle sue gambette arcuate. Carlo scoppiò in lacrime, addossandosi al muro. Con quella gamba sanguinante non aveva vie di scampo. Era paralizzato, alla mercé di quel giocattolo animato dalla magia nera.
«Ti prego, risparmiami! – urlò, la voce scossa dai singhiozzi – Sono una brava persona. Non ho fatto altro che lavorare da quando ho diciassette anni! Pago le tasse, vado in Chiesa, non ho mai torto un capello a nessuno! Amo la mia ragazza, la voglio sposare, vogliamo fare bambini anche se non abbiamo un soldo in tasca. Cosa farà Paola senza di me? È disoccupata, non ha futuro! Non uccidermi, ti prego! Perché… perché a me??»
Lady Lavanda l’aveva raggiunto. Carlo chiuse gli occhi e si mise a recitare il Padre Nostro. La bambola si preparò a balzare, digrignò i denti, alzò il coltello…
…e lo lasciò cadere.
«No, non lo posso fare!» sbottò, con voce incredibilmente profonda.
Carlo riaprì gli occhi, intontito dalla paura.
«Cosa?»
La bambola, dopo aver calciato via il coltello contro il muro, si sedette a gambe incrociate e lo fissò con aria annoiata.
«Non lo posso fare, ho detto. Mi fai troppa pena.»
Carlo tossì, soffocato dal proprio muco.
«F-fai davvero? Non è uno s-scherzo?»
«Macché scherzo e scherzo. Dico sul serio. Che gusto c’è ad ammazzare una persona come te? Dio, mi si spezza il cuore. E io non ce l’ho un cuore, bello, pensa quanto mi fai pena. Se infierissi su di te non sarei malvagia. Sarei solamente una merda.»
Carlo si mise a sedere, incredulo.
«I-io t-ti ringrazio potentissima bambola…»
«Oh, ma fammi il piacere. Odio i lecchini! Vuoi farmi cambiare idea?»
«N-no ci m-mancherebbe.»
«Bravo. Ora levati di mezzo. Anzi, no. Adesso mi darai una mano, capito?»
«Oh, n-no. C-cosa devo fare?»
«Piantala di piagnucolare. Il fatto è che, con questa storia della crisi, uccidere non ha più gusto. Mi fate tutti tristezza…»
«E io c-che ci dovrei fare?» biascicò Carlo, torcendosi le mani. Lady Lavanda gli sventolò il coltello all’altezza delle palle.
«Fatti venire un’idea o avrai ben altro per cui piangere.»
E Carlo se la fece venire.

Salvo Dinari, ministro dell’economia, era stato indagato per concussione, abuso d’ufficio e corruzione. Benché colpevole non era mai stato condannato, complice un sistema giudiziario che faceva acqua da tutte le parti e un giro molto astuto di mazzette, fatte recapitare fra le mani di chi contava. All’apice del suo potere, Salvo Dinari non poteva essere più felice e potente di così.
Quella mattina uscì da palazzo Chigi con un sorriso sornione. Era riuscito, grazie ad un manipolo di fedeli al Parlamento, a far votare una legge ad personam, che gli avrebbe concesso di continuare a gestire alcuni suoi “affarucci”, mantenendo la sua fedina penale immacolata. Il tutto, ovviamente, con il sotterraneo scopo di racimolare una “discreta sommetta” nel conto segreto che aveva aperto in Svizzera.
Era una bella giornata di sole, una di quelle giornate da segnare sul calendario. Appena mise piede fuori dall’androne del palazzo, Salvo venne raggiunto da uno stuolo di paparazzi esagitati. Come di consueto iniziò a sorridere e a salutare con magnanimità, consapevole che la sua immagine, sparata nelle case di tutti gli italiani, avrebbe fatto evaporare qualsiasi dubbio sulla sua colpevolezza.
«Ministro Dinari, come commenta le ultime dichiarazioni…»
«Ministro, cosa ne pensa del comma 33?»
«Ministro, è convinto che un intervento in Libia sia auspicabile…»
«Ministro, compri questa bambola, è per una buona causa!»
Che cosa? Salvo si girò con sguardo interrogativo.
«Come dice, scusi?»
A parlare era stato un uomo, un gretto rappresentante della defunta classe media italiana. Camicia di seconda mano, pantaloni non più di moda da almeno tre anni, orologio made in china al polso. Salvo si sforzò di sorridere, anche se avrebbe voluto scappare a gambe levate. Che immagine miserevole!
«Una bambola, diceva?»
Mr. Miseria annuì, sventolandogli sotto il naso una pupattola decisamente kitsch, con un vestitino viola di organza e merletti. Sul suo visino era dipinto un sorriso enigmatico.
«Acquisti Lady Lavanda per una buona causa! – ripeté l’ometto – Aiuterà molte persone povere.»
I paparazzi continuavano a scattare foto. Questa sì che era una buona pubblicità, pensò Salvo: avrebbe di certo elevato la sua immagine alle stelle. Si frugò nei pantaloni D&G, armeggiò col portafogli Gucci e allungò a Mr. Miseria un verdone.
«Che Dio la benedica.» borbottò poco convinto l’uomo, schiaffandogli la bambola fra le braccia. In un attimo era sparito fra la folla. Salvo Dinari sorrise umilmente ai fotografi, alzando il suo caritatevole acquisto a mo’ di trofeo, dopodiché si allontanò dalla piazza e salì sull’auto blu.
«Dove la porto, ministro?» domandò ossequiosamente l’autista.
«Portami a Villa Fiumani – ordinò secco l’altro – C’è il pranzo per il compleanno di Sebastiano Breghioli Castoldi, il multimilionario. Ci sarà tutta la crème della società: politici, imprenditori, stilisti…»
Un movimento impercettibile catturò la sua attenzione e lo fece voltare verso la bambola, che aveva sistemato sul sedile di mezzo. Era la sua immaginazione o il sorriso di porcellana di Lady Lavanda si era fatto ancora più largo?

giovedì 27 agosto 2015

Il mercante di desideri

Rimasto in quel punto esatto, al crocicchio di due strade che si congiungevano, il grosso carro attese che si facesse giorno inoltrato e che il sole, superate le vicine asperità dei Monti Verdeggianti, illuminasse tutta la vallata di un riverbero dorato degno delle più maestose cattedrali delle Lande di Mirabilia.




Solo un paio di cornacchie notarono, sul far dell’alba, lo strano carrozzone che si avvicinava, avvolto da una bruma rossiccia, alla vallata di Mistycreek. Erano da poco passate le cinque del mattino, e il cielo era bianco come il ventre di una vergine.
Una volta che il carrozzone si fu avvicinato ai campi di granturco, dal suo interno proruppe il rumore assordante di un campanaccio, al quale le due cornacchie reagirono con quieta indifferenza. Agli occhi di due uccellacci neri, quello doveva essere uno spettacolo di ben poco interesse, o almeno così avrebbero pensato gli abitanti, se fossero passati da quelle parti e avessero osservato come i due volatili si guardassero stolidamente l’un l’altro, senza proferir verso, con quel paio di occhi senza fondo, vuoti e atri, come gocce di inchiostro su un foglio ancora più nero. Che cosa ne potevano sapere, due cornacchie, di cosa fosse un carrozzone e che cosa poteva mai importare, a loro, chi ci fosse dentro e dove fosse diretto?
Non appena il campanaccio smise di suonare, il carrozzone si fermò. E questo di certo era ben strano, visto che, davanti al carrozzone, non c’erano né cavalli né asini e non era facile capire che cosa gli avesse permesso di percorrere tutta la vallata fino allo sperduto villaggio di Mistycreek. Rimasto in quel punto esatto, al crocicchio di due strade che si congiungevano, il grosso carro attese che si facesse giorno inoltrato e che il sole, superate le vicine asperità dei Monti Verdeggianti, illuminasse tutta la vallata di un riverbero dorato degno delle più maestose cattedrali delle Lande di Mirabilia.

Quando gli abitanti di Mistycreek si svegliarono, ci misero un po’ di tempo ad accorgersi della novità che li attendeva oltre i tetti delle loro casupole e oltre le mura appuntite dei loro steccati. Fu Jamie, figlio di due contadini che vivevano da quelle parti, a vedere per primo quel trabiccolo. Trafelato, perdendo scarpe, cappello e le uova che doveva vendere al mercato, giunse in piazza gridando: «venite tutti quanti a vedere fuori! C’è una cosa che… be’ venite e basta!»
«Cos’è, uno scherzo?» gridò qualcuno.
«Insomma, volete venire o no?» ribatté aspramente Jamie.
Ben presto, la folla degli abitanti di Mistycreek si riunì davanti al carrozzone. Sembrava quasi uno scrigno dei pirati, chiuso e muto, capitato lì per magia, come se fosse piovuto dal cielo o cresciuto dal terreno durante la notte come una barbabietola.
«Cosa pensate che sia?» mormorarono tra loro, senza avere il coraggio di avvicinarsi e di bussare alla piccola porticina che si apriva sul retro della “cosa”. Chiunque ci fosse dentro risparmiò loro la fatica: ci fu un rumore metallico e la porticina, ad un tratto, si aprì. Dal buio della carrozza venne stesa una scaletta di legno pieghevole e il misterioso viaggiatore, finalmente, la scese.
Era un giovane e affascinante uomo, vestito con un elegante abito damascato, lungo fino ai piedi. In testa portava un turbante di quelli che indossano i ricchi principi orientali e sul suo viso capeggiavano un paio di baffoni a ricciolo, strani e intriganti. Tutta la sua persona, in fin dei conti, era strana e intrigante. Le cornacchie, non appena il viaggiatore si palesò, diedero un gracchio infastidito che si smorzò non appena vennero tempestate di sassolini e pezzi di bottiglia. Indignate, spiccarono il volo e sparirono nella foresta.
«Benvenuti – esclamò il giovane – all’emporio viaggiante di Jamal, il mercante di desideri!»
Un “ooooh” sincero salì dalla folla. Le donne si abbracciarono ai mariti, in parte impaurite e in parte eccitate, e i bambini si misero a battere le mani. Gli uomini, invece, rimasero scettici quel poco che richiedeva la situazione.
«Mi scusi: cos’è che vende?» domandò il sindaco, che credeva di non aver sentito bene.
«Desideri, signori miei. Desideri nel comodo formato da viaggio che si usa dalle mie parti.»
Detto questo, il giovane mercante armeggiò con il fianco del carrozzone e aprì una finestrella che, molti dei viaggiatori lo avrebbero giurato, prima non c’era. All’interno il carrozzone consisteva in una serie di ripiani, di numerosi e lunghissimi ripiani, che riempivano tutti i lati, eccetto quello della porta. Anche le ante della finestra, quella che il mercante aveva appena aperto, erano costituite da un numero imprecisato di mensole e cellette. Gli abitanti si avvicinarono, incuriositi, e si misero a mormorare tra loro quando notarono cosa fossero gli oggetti che il mercante trasportava: centinaia, migliaia di vasetti di vetro, di dimensioni differenti, colmi di fumo dai colori altrettanto diversi, rosso, giallo, viola, magenta, blu, nero… Sembravano pezzi di arcobaleno intrappolati in prigioni di vetro.
«Ma mi faccia il piacere – borbottò Ivan, il maniscalco, che era un uomo con i piedi per terra – e quelli sarebbero i suoi desideri? Vasi pieni di fumo colorato?»
Jamal annuì, per nulla risentito, e fece cenno all’omone di avvicinarsi. Lui accondiscese, ondeggiando sulle sue gambone da orco. Quando fu a pochi metri dal carrozzone, il mercante gli ordinò di fermarsi e si mise a scrutarlo. Se gli abitanti fossero stati più attenti si sarebbero certo accorti che in quello sguardo si nascondeva un’oscurità che non lasciava presagire nulla di buono, ma purtroppo erano tutti attirati dalla policromia di quei misteriosi vasetti. Dopo qualche minuto di osservazione, Jamal, annuendo con convinzione, afferrò uno di questi contenitori (uno grande e tondo, pieno di vapore rosso) e lo consegnò all’omone.
«Su, lo provi!» esclamò. Era certo che quel particolare vasetto fosse perfetto per il maniscalco. D’altronde, leggere le persone era il suo mestiere, ed era un mestiere che esercitava da molti eoni.
Titubante, il maniscalco svitò il tappo di sughero e, seguendo il consiglio del mercante, aspirò un ricciolo di fumo rosso, giusto un pochino. Immediatamente, il suo naso si dilatò e i suoi occhi, prima cupi e guardinghi, si accesero dello stesso colore.
«Che cosa vede?» gli domandò Jamal, mentre gli altri abitanti, galvanizzati, si riunivano attorno a lui.
Il maniscalco aveva il viso trasognato.
«Vedo me stesso, in piedi sulla prua di una nave, mentre mi dirigo verso terre lontane. Ho una spada nella mano sinistra e al mio fianco pende la testa di una mostruosa gorgone. Sono un cacciatore di mostri e la gente comune mi osanna.»
Poi le sue iridi tornarono del suo solito colore nocciola.
«Oh, la prego, me ne dia ancora.» supplicò, mentre grosse lacrime gli scendevano dagli occhi porcini.
«Sicuro!» ribatté Jamal, incitandolo ad aspirarne ancora «Qui ce n’è per tutti!» concluse poi, facendo cenno agli altri di avvicinarsi.
«Un momento – sbottò acida la levatrice, un’anziana che ci vedeva più lungo degli altri – e quanto costa questa, questa… roba?»
«Assolutamente nulla. Non dovrete sborsare un solo centesimo. Mi basterà… prendere un ricordo da ognuno di voi. Una… cosa da nulla.»
Non appena gli abitanti sentirono che i vasetti erano gratuiti si lanciarono in massa verso il carrozzone e Jamal dovette usare tutta la sua autorità per impedire che i contenitori venissero rubati o presi a casaccio.
«Aspettate… su, su… mi meraviglio di lei, commendatore: spingere così un ragazzino! E lei, Susanna, dove crede di andare? No, quello non fa per lei, ascolti me. Fidatevi. Calma, calma, signori. Ce n’è per tutti!»
Nessuno si domandava come mai un mercante che veniva da una terra lontanissima conoscesse così bene i loro nomi.
Nel giro di pochi minuti, tutti quanti avevano il loro vasetto, donne, bambini, uomini e anziani, e tutti, dopo averne aspirato il contenuto, si lasciavano trasportare dalle visioni che il fumo suscitava davanti ai loro occhi. Amber sognava di fuggire lontano e di lasciarsi alle spalle il suo amore perduto. Nicholas immaginava che tutti lo rispettassero e la sua gamba destra, nei suoi sogni, non era storta come nella realtà. Violet sognava di essere bellissima e di avere i capelli biondi, lei che ce li aveva neri come le notte e per questo si odiava…
Ovunque, i sospiri voluttuosi e rapiti della gente risuonavano nell’aria. Le due cornacchie, appese al ramo di un platano, scuotevano tristemente la testa.
Mai, in tutta la vallata dove sorgeva Mistycreek, c’erano stati così tanta felicità e godimento.
Poi, lentamente, le risate, i sospiri e i gemiti scemarono. Gli abitanti tornarono a respirare il fumo dai vasetti (sembrava non avere mai fine e, per quanto ne inalassero, i contenitori non si svuotavano), ma, ad ogni respiro, le risate si facevano meno forti, i sorrisi più amari, i sussulti più stiracchiati. Era come se le visioni dei loro desideri soddisfatti non potessero più allietarli.
«Che sta succedendo, signor Jamal?» chiesero in coro. Ma il signor Jamal, con loro sorpresa, era sparito nel nulla, lui e il suo strano carrozzone senza cavalli. A guidarlo, era ovvio, c’erano due demoni stigei.
Allora, sul villaggio calò un’ombra di dolore, di pianto e di rimpianto. Uno ad uno, gli abitanti smisero di mangiare, di dormire, di parlare. Restarono muti e immobili, chiusi in loro stessi, vittime e prigionieri di quelle visioni di felicità che man mano scemavano di intensità, rivelandosi nella loro menzognera artificiosità. E così, uno ad uno, gli abitanti di Mistycreek morirono. I loro corpi giacquero e marcirono al crocicchio della strada e richiamarono corvi e cornacchie.
Dall’altra parte della vallata, il mercante di morte Jamal riempiva vasetti appena disigillati di vapori nuovi di zecca: le anime di chi era morto del suo inganno, laggiù, nella valle dorata di Mistycreek. Merce nuova, con cui creare desideri ancora più potenti, ancora più ipnotizzanti, a cui nessuno sarebbe mai riuscito a sfuggire. Con una risata lugubre, che suscitò un’eco fra le montagne nebbiose, Jamal sparì. Dove fosse diretto, neppure gli dèi lo potevano sapere.

Due cornacchie spiarono il carrozzone che si allontanava, sparendo nella nebbia rossa in cui era arrivato.
«Che essere spregevole!» borbottò la cornacchia a sinistra.
«Tu dici? È spregevole, certo, ma neppure gli abitanti sono stati da meno.»
«Che intendi dire?» chiese l’altra, saltellando sulle sue zampette nere.
«Oh, be’… erano talmente ciechi che non si sono resi conto che i loro desideri potevano realizzarli da sé, senza il bisogno di nessuno.»
«Davvero?»
«Sì, davvero. Ivan, il maniscalco, non era forse amato dalla gente, perché si prendeva cura dei cavalli? Aveva forse bisogno di diventare un eroe, quando già era così ammirato? E Tristan, il garzone, che sognava di amori impossibili, non si era accorto di come Lelia lo guardasse, quando il sole andava a tramontare oltre le montagne o quando la notte bussava alle porte del cielo con le sue mani di vento? E Susanna, che sognava di cambiare il mondo, non si era accorta che suo figlio, Taddeus, stava crescendo sano e intelligente e che un giorno non troppo lontano avrebbe potuto, insieme ad altri mille giovani, lottare per un mondo migliore e conquistare la libertà? Come vedi, Becconero, gli uomini non sono mai felici di quello che hanno.»
«Oh, tutta questa storia mi ha rattristato molto.» ammise Becconero, scuotendo inutilmente le penne.
«È vero, ma non ci pensare. Su, andiamo a beccare qualche occhio prima che arrivino i vermi.»